Introduzione
Non so se a voi capiti spesso di sognare, e poi – soprattutto - di riuscire a ricordarvi nei particolari i sogni.
A me di norma non succede, o per lo meno anche se mi succede non me ne ricordo.
Quando invece, svegliandomi, me ne ricordo, il sognosvanisce del tutto in pochi secondi lasciandomi poche immagini incoerenti, ormai scollegate da tutte le altre che avrebbero dato un senso al mosaico.
Vi sono però dei casi in cui vivo il sogno con tale vivacità di immagini, di realismo e di emozioni da svegliarmi di soprassalto, e riuscire poi a ricordare i minimi particolari per parecchi minuti ancora.
E’ per questo che sul mio comodino conservo sempre pronto un block notes e una penna per fissare immediatamente quanto ho appena sognato.
Accendo l’abat-jour, annoto scrupolosamente, spengo la luce e mi riaddormento, rimandando al risveglio del mattino ogni riflessione.
Un ‘sogno’, ad esempio, è entrato in qualche modo anche nella composizione del mio primo libro di sette anni fa: ‘Alla ricerca del Paradiso perduto’.
Mi ero ‘convertito’ da pochi anni. Convertito nel senso che avevo cominciato a mettermi in discussione, anche se non proprio a cambiare radicalmente indirizzo alla mia vita.
Vi domanderete cosa avesse potuto indurmi a ciò.
Era stato un dolore, un dolore come ne accadono in tutte le famiglie.
Ero rimasto vedovo. Mi ero allora chiesto come mai era toccato ‘a lei’ e non ‘a me’, e se dopo la morte esistesse solo la disintegrazione degli atomi del corpo o se quella cosa che nessuno ha visto né toccato ma che tanti dicono che c’è, vale a dire l’anima, esistesse veramente e fosse addirittura immortale.
Ero un agnostico, non credevo nelle religioni1 che ritenevo frutto di elaborazioni umane, né tantomeno credevo nel Cristianesimo se non intendendolo come un’ottima scuola di vita i cui ‘maestri’ non sempre nella storia – a cominciare da certi papi del medioevo - avevano dato il buon esempio.
Uno di questi maestri, anche perché mio insegnante, però mi aveva colpito. Era un sacerdote salesiano, sulla sessantina e, quando nel collegio - dove studiavo da giovinetto - andavo da lui a confessarmi, lo sentivo parlarmi sottovoce nell’orecchio con parole paterne.
Forse aveva la dentiera, perché nel parlarmi attraverso la grata del confessionale e nel darmi l’assoluzione sibilava leggermente fra i denti con quel suo alito che sapeva sempre di caffèlatte.
Era alto, magro, con i capelli a spazzola, bianchi e - mentre io correvo a perdifiato sulle fasce laterali del campo prendendo a calci un pallone - lui passeggiava sul bordo, sempre profondamente assorto in preghiera, con gli occhi su quel breviario che teneva in mano, mentre ogni tanto alzava la testa e mi sorrideva.
Era un ricordo che talvolta affiorava nella mia mente di adulto mentre mi chiedevo con malinconia e con nostalgia che fine avesse mai fatto, visti gli anni trascorsi.
Nel frattempo mi ero allontanato dalla Chiesa di quei primi anni da adolescente, ma non dal ricordo di quel prete né da quelle ‘assoluzioni’ che a volte egli sembrava mi dispensasse con troppa bontà.
Ritornando però al tema del dolore che mi aveva toccato per la prima volta da vicino, avevo cominciato a chiedermi se Dio, intendo il Dio personale come lo intendono i cristiani, esistesse veramente e - se Dio esisteva – come mai Egli permettesse il dolore, specie quello che consideriamo ingiusto.
E se il dolore derivava dalla cattiveria dell’uomo e dalla fragilità della salute, conseguenza del cosiddetto Peccato originale, come mai il Dio dei cristiani aveva permesso ai Primi due di sbagliare e trascinare con loro nella rovina tutti gli innocenti che sarebbero nati dopo e che non avevano avuto alcuna responsabilità nel loro errore?
Per me, a quei tempi, queste domande - che erano sempre rimaste senza una risposta convincente - erano state più che sufficienti per tenermi alla larga dalla dottrina cristiana, che del resto non avevo voluto mai neanche approfondire, salvo preferire piuttosto i testi orientali delle letture indiane ‘veda’ che – quelle sì – mi sembravano essere dei condensati di filosofia e di saggezza.
Avevo già posseduto per molti anni un rustico di campagna con vigneto e frutteto, che utilizzavo nei week-end e che avevo ristrutturato.
Poi avevo individuato un’altra proprietà e – detestando un poco la vita di città - avevo chiesto ai miei figli se fossero stati disposti ad andare tutti insieme a vivere in campagna facendo con me i ‘pendolari’ giornalieri da e per la città dove lavoravamo.
Essi erano allora più o meno ventenni ma, avendo sempre avuto fiducia in me, avevano condiviso la mia proposta decidendo di fare questa scelta di vita.
Per loro – giovani con le loro amicizie giovani – si trattava di una scelta radicale, anche rispetto alle maggiori prospettive professionali che può offrire il vivere in una grande città.
Forse allora non avevo dato il giusto peso a questo aspetto anche se adesso - a quattordici anni di distanza – mi dico che non ce ne possiamo affatto lamentare, anzi – con trattori, vigne, campi di frumento, mais, fieno, erba per mucche e poco guadagno – posso ancora dire che ci è andata magnificamente bene.
Ero un cinquantenne ancora in forma, ero ormai solo ma mi ero abituato alla solitudine interiore che mi sembrava serenità.
Avevo una grande casa nel verde, nel silenzio di un parco cintato e sorvegliato da bei pastori tedeschi, taglia grande e pelo lungo, che mi tenevano compagnia e che scorazzavano tutto il giorno sotto gli alberi nel prato.
I cani, i cui discendenti - di cucciolata in cucciolata, fra padri, madri, nonni, trisavoli - ora sono sei, mi allietavano le ore di solitudine quando i miei figli erano al lavoro o quando – alzando la testa dai miei libri – scendevo al piano terra a farmi un caffè lasciando il ritiro della mia ‘torretta’, in cima, dove avevo il mio studio per le mie letture e meditazioni.
Fu allora che i miei figli Marina e Marco, forse un poco preoccupati per quella che a loro doveva apparire come una mia eccessiva chiusura ‘patologica’ in me stesso, un giorno mi presero da parte e – seduti in poltrona di fronte alla fiamma scoppiettante di un caminetto natalizio – mi dissero che per la mamma avevo fatto tanto ma che essi non volevano che chiudessi la mia vita in quella maniera.2
Non sopportavano che – una volta che essi si fossero sposati – io continuassi a dialogare solo con i miei cani…
Insomma loro sarebbero stati contenti se io avessi trovato un’altra anima gemella. Come la avrei voluta io…, naturalmente. A loro sarebbe stato sufficiente che lei non gli ‘mettesse la prua contro’, perché loro in casa con me ci stavano bene e avrebbero voluto rimanerci...
Non vi deve stupire il riferimento alla ‘prua’, ma da velisti quale io stesso ero, conoscevano bene la fatica di navigare in barca ‘di bolina’, e cioè controvento.
‘Ma noi ti vogliamo bene – aveva aggiunto mio figlio – e allora vogliamo che tu ti sposi! Finchè sei in tempo…’.
Credetemi, il pensiero di un’anima gemella era lontano da me mille miglia, ma ci rimasi un pochino male nel sentirmi dire che dovevo farlo ‘finchè ero in tempo’ come se loro pensassero che ero ormai quasi da buttare via, e allora decisi di prendermi un piccola ironica ‘vendetta’, feci finta di prenderli sul serio, feci un bel sorriso a pieni denti, li ringraziai per il pensiero affettuoso e per la loro nobiltà d’animo e, mostrandomi serio, presi il solito block notes e proposi loro di individuare insieme le qualità che una donna ideale per me avrebbe dovuto possedere.
Facemmo insomma un ‘Identikit’: età, cultura, carattere, ecc.,… senza dimenticare in fondo alla lista una certa capacità culinaria per le gioie della gola.
Non so se sia stato il caso o la Provvidenza, fate voi, ma l’identikit, o se preferite la ‘donna ideale’, la incontrai del tutto casualmente appena un mesetto dopo, con la ‘benedizione’ dei figli, naturalmente.
Questo ‘identikit’ – scopersi dopo - possedeva per di più il dono della fede, qualità ancora più importante ma che io - da buon razionalista e uomo di mondo allergico com’ero al ‘religioso’ – mi sarei ben guardato dall’indicare come qualità indispensabile.
Parlando un giorno con degli amici della mia mancanza di fede, pur essendo ‘cristiano, ma ammettendo anche con loro che non ero in realtà in condizione di ‘giudicare’ il cristianesimo del quale ricordavo solo alcune nozioni catechistiche apprese in età scolare, una delle persone presenti mi aveva buttato lì con noncuranza: ‘Leggiti la Valtorta, se vuoi trovare le risposte che cerchi, cercalo nelle librerie delle Paoline…’.
Non sapevo chi fosse costei né cosa avesse scritto esattamente e me ne sarei magari anche dimenticato.
Un giorno però mi trovai a passare per caso proprio davanti ad una libreria delle Edizioni Paoline, ero distratto ma all’improvviso scattò qualcosa nel mio Subconscio e mi ricordai di quella ‘Valtorta’.
Frenai, mi misi in doppia fila davanti all’ingresso e dissi a mia moglie di andare veloce a vedere se quel libro ce l’avevano.
Lei si affacciò dopo un minuto alla porta gridandomi che ‘quel libro’ erano in realtà ‘dieci volumi’, tutti di vita evangelica, più altri cinque o sei. Quale doveva prendere?
Io - che già allora non avevo alcun senso del risparmio, soprattutto se si tratta di libri! - mi limitai a risponderle: ‘Ah…, beh…, comprali tutti, allora!’.
Sono fatto così, nelle mie scelte non conosco le mezze misure.
Ma in casa – mi accorsi dopo - non mi ero portato solo i suoi libri, ma anche lei, la mistica scrittrice, e con lei anche quel Gesù che lei vedeva ogni giorno in visione e la ammaestrava sulla sua vita evangelica di 2000 anni fa.
Questa grande carismatica moderna – paralizzata, offertasi a Gesù quale anima-vittima di ‘corredenzione’ per la salvezza degli altri - aveva trascritto dal suo letto su dei quaderni le sue visioni e i suoi dialoghi con Gesù fra il 1943 e il 1950 del secolo appena trascorso.
Lei, con la sua Opera, aveva finito per riempire la mia vita ed imprimerle una svolta.
Anche perché mia moglie, la ‘donna di fede’, divenne la sua più grande alleata.
Da allora, di anni, ne sono passati dieci e - dopo i primi tre trascorsi nella rilettura frequente e nella meditazione dei testi di questa mistica conosciuta ormai in tutto il mondo dove le sue opere sono state tradotte in molte lingue - negli ultimi sette anni ho scritto undici libri.
Ma il primo… - e qui ritorno all’argomento dei sogni che avevamo lasciato per questa piccola digressione autobiografica - il primo libro era stato veramente il passo più difficile: descriva il faticoso e graduale cammino di conversione di un agnostico razionalista.
Non avevo alcuna esperienza come scrittore, e delle Case Editrici sapevo quello che leggevo qui e là sui giornali e cioè che uno ne pubblicavano e mille ne cestinavano.
Per di più – in questo campo ‘religioso’ – non potevo ricorrere a nessuna delle ‘maniglie’ che ben avevo conosciuto nella mia vita professionale.
Mi avrebbero potuto infatti servire a tutto tranne che a ‘raccomandarmi’ a qualche eminente Prelato della Chiesa che stilasse una Presentazione accettabile per la mia fatica.
Ma avrebbe mai potuto - un alto Prelato - fare una presentazione al libro di uno sconosciuto ‘catecumeno’, cioè uno che apprende i primi rudimenti del cristianesimo e che ha per giunta la pretesa di scrivere a dei razionalisti parlando un linguaggio da ‘uomo della strada’ e con le sole poche nozioni che può avere un ‘catecumeno’,?
Ed avrebbe mai potuto un ‘razionalista agnostico’, cioè il destinatario-tipo del libro che io avevo scritto, accettare mai di leggere un libro con la ‘presentazione’ di un ‘prelato’, fatto che avrebbe finito per fargli pensare – con rispetto parlando – non tanto ad un libro in odor di ‘santità’ quanto piuttosto in sentor di ‘sagrestia’?
Quel primo libro era dunque rimasto fermo nel cassetto e pensavo che ci sarebbe rimasto ormai per sempre quando – una notte - entrò in ballo uno di quei ‘sogni’ vividi di cui vi ho parlato prima e che – quando arrivano con chiarezza folgorante – vi ho detto che riesco a ‘ricordare’ con assoluta precisione. 3
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Presentazione
Luce:
"Alla Ricerca del Paradiso perduto" è la storia - che potrebbe essere di tanti - di un uomo che, avendo Fede senza sapere di averla, la cerca nei posti sbagliati senza saper neanche con precisione cosa cercare.
La ricerca del Paradiso perduto è in realtà la ricerca affannosa, inquieta, di Dio.
L'uomo è un uomo dei nostri tempi, moderatamente colto, normalmente colto. Egli ha però approfondito quei settori dello scibile razionalista che cercano di dare una risposta ai problemi di questa esistenza, e dell'altra. E allora (lui crede) la curiosità (ma in realtà è l'anelito interiore) lo spinge allo studio della psicanalisi (per cercare di comprendere se inconscio, subconscio o anima siano la stessa cosa o qualcosa di simile), delle tecniche di meditazione e concentrazione del "training autogeno" (per capire se, rivolgendo l'attenzione verso la propria interiorità, egli riesca a scoprire qualcosa di trascendentale che possa chiamarsi anima), allo studio dei fenomeni spiritici, studio in chiave parapsicologica (per capire se questi siano la rivelazione di un mondo spirituale che esiste, o frutto di macchinazioni truffaldine, o fenomeni di tipo ESP-extrasensoriale ma non attribuibili al mondo dello Spirito), allo studio della "dottrina" spiritistica elaborata nell'opera di Allan Kardec, padre dello spiritismo moderno (per raffrontarla con le dottrine sulla reincarnazione di tipo orientale), allo studio di quei filosofi - come Pitagora - che avevano elaborato dottrine in questa direzione, allo studio delle religioni e delle filosofie orientali (per analizzare come queste abbiano affrontato il problema di Dio e dell'anima), infine allo studio dell'evoluzionismo darwiniano (per comprendere se l'uomo possa o meno essere il prodotto di una evoluzione da forme di vita inferiore) e, per terminare, a quello della fisica moderna (per comprendere quale risposta essa possa dare al problema dell'origine dell'universo).
Come si vede questa è una ricerca culturale penosa, ammantata sotto il pretesto della curiosità intellettuale, ma che è volta alla ricerca disperata del senso della vita : Dio.
Dio, questo sconosciuto, a troppi ‘Dio ignoto’, come per i Greci che però almeno gli elevavano un altare.
Dio, questo sconosciuto, anche se tutta la natura, tutta la Creazione grida di Lui.
I 'dolori' non sono estranei a questa ricerca, sono i dolori che accompagnano la vita di ogni uomo, che lo mettono di fronte al problema della Morte e quindi dell'esistenza o meno dell'altra vita.
Ma alla fine la ricerca ha termine.
La ricerca sui problemi della vita, la ricerca sulle risposte in merito a Dio, alla sua esistenza, ai suoi fini creativi, allo scopo della esistenza dell'uomo, si conclude alla fine proprio nella dottrina cristiana che, adeguatamente approfondita in chiave razionalista, ha dimostrato di saper dare all'uomo moderno la risposta ai problemi che si poneva anche l'uomo antico.
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, chi è Dio, perché ha creato l'uomo, perché esistono l'odio, l'ingiustizia, il dolore. Quale è il senso della nostra vita, quale quello della nostra morte.
In queste domande e nelle relative risposte si sviluppa la piccola ‘opera’ dove, alla ricerca appunto del 'Paradiso perduto', l'uomo immagina di ‘sognare’.
Egli sogna di partire per il Tibet, come molti fanno, per andare a cercare nelle foreste e sui monti, in un monastero tibetano, le risposte spirituali ai quesiti che la convulsa vita moderna non lascia neanche porre.
Durante il percorso, durante la sosta in una caverna, durante il sonno, una 'Luce' appare in sogno e parla all'uomo.
Luce : Chi sei?!
Uomo : Uno che cerca la Verità.
Luce : Perché rifiuti la mia ?
Uomo : Perché non sa darmi risposte che convincano la mia
ragione.
Luce : Ma conosci tu veramente la mia dottrina ?
Uomo : Veramente no, ma quel poco che so non mi ha mai convinto...
(incerto)
Luce : E se Io ti convincessi, mi seguiresti e ti presteresti a
convincere quelli come te?
Uomo : Sì !
Luce : Bene. Da adesso tu sarai il Catecumeno ed Io sarò il tuo
Maestro.
Il sogno si dipana e, attraverso i "dialoghi" fra la Luce ed il catecumeno, inizia la spiegazione del Progetto creativo di Dio, che "dimostra" se stesso, la verità della propria Dottrina, spiegata in termini semplici e razionali, le risposte ai problemi esistenziali della vita.
E attraverso i "dialoghi" l'uomo si converte, prima in termini intellettuali e poi spirituali, perché la conversione intellettuale passa attraverso la conversione del proprio "Io naturale", con i suoi istinti: conversione dolorosa, giornaliera, fatta di battaglie e sconfitte, dove non si è veramente mai vincitori perché anche dopo una vittoria vi è ancora un'altra prova, ma dove alla fine, martiri del proprio "Io", si perviene alla scoperta del Paradiso perduto ...
Bene, non so se quella ‘anonima’ Presentazione della ‘Luce’ fosse stata convincente, ma il primo Editore al quale avevo inviato solo le prime cento pagine fotocopiate del libro – dicendogli che se non gli fossero piaciute quelle era inutile che gli mandassi anche le trecento successive – mi fece rispondere dopo solo una settimana che mi avrebbe spedito il contratto da controfirmare anche se non aveva ancora letto le pagine successive.4
1 Dell’autore, al riguardo ‘Alla scoperta del Paradiso perduto’ – Vol. I. Cap. 4: l’Intervista – Ed. Segno, 1999
2 G.L. ‘Alla scoperta del Paradiso perduto’ – Vol. I – Cap. 4.2 - Edizioni Segno, 1999
3 G.L. ‘Alla ricerca del Paradiso perduto’ – Presentazione, Ed. Segno, 1997
4 G.L.: ‘Alla scoperta del Paradiso perduto’, ovvero il Dio interiore – Vol. I, Cap. 1: Il Contratto’ – Ed. Segno, 1999