(M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Vol. IV – Cap. 272 – Centro Editoriale Valtortiano)
14. Un episodio che si spiega da sé, o quasi…
14.1 Quel cognato di Pietro…
L’episodio valtortiano letto nel capitolo precedente è un episodio che si spiega da sé, ma ora vorrei farvi comprendere quante sfumature in più se ne possano cogliere attraverso una attenta meditazione ed una interpretazione di alcuni suoi passi alla luce di altri brani dell’Opera valtortiana.
Innanzitutto il caratteraccio di San Pietro, personaggio del quale ho già parlato con affetto in altri miei libri precedenti di commento all’opera della nostra mistica.
Quella sua voce che – nell’ascoltare Mannaen – tuona con ‘Quell’imbecille di mio cognato!’, non è francamente l’esclamazione di un santo, cioè di colui che noi conosciamo come futuro ‘Capo della Chiesa cristiana’.
Roba da far dubitare dell’udito della Valtorta, per non dire della santità di San Pietro!
Ma Pietro – è bene non dimenticarlo – era a quel tempo un uomo del mondo, era sposato, conosceva la vita, faceva il pescatore, anzi era un piccolo imprenditore della pesca.
Egli – insieme a suo fratello Andrea – aveva delle barche in società con Zebedeo, padre dei due apostoli Giacomo e Giovanni.
Pietro e gli altri pescavano nel lago di Genezareth, o Tiberiade che dir si voglia, e poi rivendevano il pesce nei mercatini locali. Avevano anche dei lavoranti alle loro dipendenze. Far marciare una piccola impresa, anche se a quei tempi non c’erano ancora i sindacati, richiedeva una bella tempra, spirito di iniziativa, decisione e una certa durezza caratteriale.
Non a caso Gesù lasciò Pietro - e non Giovanni, l’apostolo dell’amore - a Capo della Chiesa.
Pietro era un ‘dominatore’ ed esercitava un carisma naturale sugli altri apostoli, ma era anche un impulsivo che talvolta ‘esplodeva’ quando le cose non andavano nel verso giusto.
Abbiamo già commentato nei volumi precedenti vari episodi che lo riguardano, alcuni veramente gustosi e divertenti.
Era generoso ed altruista, ma quando lui con piglio brusco ed autoritario ‘ordinava’ qualcosa, suo fratello Andrea ed i giovani ‘soci’ Giacomo e Giovanni, filavano come palle di fucile.
Aveva inoltre la battuta pronta e salace di un toscano e, quanto al saper alzare le mani, lui avrebbe in realtà preferito servirsi di un remo.
I tre sinottici raccontano che - al momento dell’arresto di Gesù al Getsemani da parte delle milizie guidate da Giuda ed inviate dai sacerdoti del Tempio - ‘uno degli apostoli’ tirò fuori una spada e, probabilmente sbagliando di poco il colpo, staccò di netto un orecchio ad un inviato dei sacerdoti.
Chi sarà mai stato, secondo voi, ‘quell’uno’ degli apostoli?
I sinottici, che hanno scritto i vangeli pochi anni dopo la crocifissione di Gesù, mostrano pudore nel farne il nome forse per non dare scandalo ai nuovi cristiani.
Non pareva forse edificante che venisse risaputo che Pietro – il Capo carismatico della Chiesa – sapeva all’occorrenza dar di spada quasi come di remo, ma il suo nome lo fa invece Giovanni nel suo vangelo scritto mezzo secolo dopo, perché Giovanni, se non lo avete capito, oltre che ‘apostolo dell’amore’ era anche ‘bocca della verità’.
E’ dunque a questo Pietro che scappa quella battutaccia su ‘quell’imbecille di suo cognato!’, che gli esce dalla bocca come una schioppettata.
Saranno necessarie la morte di Gesù, la mortificazione e il rimorso per quel suo rinnegamento del Maestro al fatidico cantare del gallo nella notte della cattura, la consapevolezza infine della propria viltà e debolezza d’uomo per quella fuga insieme agli altri apostoli – mentre invece le donne erano coraggiosamente sotto la croce con Giovanni - a far ‘maturare’ Pietro, a farlo macerare dal dolore e dal pentimento, a farlo diventare un santo e, sotto l’illuminazione successiva dello Spirito Santo nella Pentecoste, a farne il degno Capo della Chiesa nascente.
14.2 Uno scriba che combatteva Gesù convinto di servire Dio, come San Paolo.
Quel dialogo, poi, fra il Gesù valtortiano e lo scriba, se ve lo rileggete con attenzione, è molto bello.
Letterariamente parlando lo definiremmo un ‘lavoretto di cesello’, se la Valtorta fosse un normale scrittore, ma in realtà non è neanche così perché lei – semplice strumento di cui si è servito Gesù per parlare a noi moderni – si è limitata, come con una telecamera nascosta, a ‘riprendere’ quello che Gesù le faceva vedere e sentire.
Lo scriba si era fatto convincere dai suoi ‘colleghi’ a cercare di tendere un tranello a Gesù, avvicinandolo con la scusa della guarigione del proprio figlioletto.
Ho già detto che scribi e farisei cercavano di approfittare di tutte le occasioni per ‘incastrarlo’.
Taluni pensavano che fosse un truffatore, come si è visto in quell’altro episodio di quell’indemoniato guarito che loro avevano accusato di aver architettato una commedia d’accordo con i cittadini di Cafarnao, per dare lustro a Gesù ed alla loro cittadina.
Nonostante che Gesù gli guarisca il figlioletto per davvero, lo Scriba – anziché essergli grato - gli porge un’esca per indurlo a parlare male di Roma e del Tempio.
‘Odio e amore sanno capire dove trovare’ – gli dice lo scriba riferendosi alle folle che quel giorno hanno saputo dove precederlo – e anche se Gesù fugge c’è chi lo segue, anche rischiando - per cui ‘è inutile per lui cercare di fuggire’.
Gesù rimane colpito dall’osservazione, si blocca, guarda in tralice lo scriba e gliene chiede conto: perché mai – è la domanda interiore di Gesù - gli altri che lo seguono dovrebbero ‘rischiare’?
E lo scriba manifesta più esplicitamente il proprio pensiero: ‘Roma ti ‘tiene d’occhio’ temendoti un agitatore politico, visto che ti definisci il Messia, e il Tempio addirittura ti odia considerandoti un agitatore religioso che mina le fondamenta dell’autorità dei sacerdoti’.
E’ un’esca sottile che avrebbe potuto facilmente spingere l’uomo-Gesù a reagire ed a compromettersi lasciandosi scappare qualche parola di troppo.
Ma Gesù, che è tutto fuorché solo uomo, lo guarda ad occhi socchiusi e – con dolcezza – gli chiede perché mai egli lo ‘tenti’, specie dopo avergli guarito il figlio.
L’uomo coglie lo sguardo penetrante dei suoi occhi, capisce che Gesù gli ha sondato il profondo del cuore e si rende anche improvvisamente conto della sua ingratitudine e dell’enormità dell’atto che stava compiendo.
Gesù era Uomo ma era contemporaneamente Dio, tuttavia la sua divinità – come ad esempio nel caso della onniscienza – si rivelava agli altri solo quando il Dio che era in lui lo reputava utile ai fine della missione dell’Uomo-Dio.
Nella normalità delle cose traspariva da Gesù la sua natura di uomo, sia pur portata al massimo della perfezione per il suo essere privo del Peccato d’origine e delle sue conseguenze.
Egli era infatti il ‘nuovo Adamo’ con tutti i doni dello Spirito Santo nella loro pienezza che anche l’Adamo originario possedeva, e fra questi anche il dono della introspezione dei cuori, quello che hanno avuto anche certi santi, ma che Gesù, Uomo perfetto, ebbe al massimo grado.
Gesù – anche senza esercitare le sue facoltà di Dio – sapeva dunque leggere nel cuore degli uomini i loro pensieri e sentimenti con la stessa chiarezza con cui noi potremmo vedere le pietre dell’alveo di un piccolo ruscello limpido di montagna.
E lo scriba a quel dolce rimprovero crolla, al pensiero del figlio guarito si vergogna di se stesso e, anziché cercare di negare, ammette onestamente la propria colpa.
Siamo di fronte ad una sorta di confessione: ‘Padre, ho peccato’, e alla confessione segue il perdono di Gesù, il Confessore per eccellenza, il quale gli si ‘apre’ allora in quel bel dialogo per illuminarlo sulla Verità.
Lo scriba gli spiega che lui aveva fatto ciò perché credeva di servire Dio combattendo lui.
Non deve meravigliare: gli ebrei combatterono i cristiani ritenendoli una setta eretica che poteva mettere in difficoltà l’ebraismo, la religione del Dio vero.
Lo stesso San Paolo, accecato e scaraventato giù da cavallo mentre si recava con dei soldati a Damasco per mettere in catene dei cristiani, fu uno di costoro.
Egli non era un assassino, come non lo è il soldato che uccide il nemico per difendere la propria patria: anch’egli pensava di difendere Dio, prima che Gesù – in una luce accecante - gli facesse sentire dal Cielo la sua voce facendogli capire che egli era quello stesso Gesù che Paolo perseguitava nei suoi discepoli.
14.3 La ‘reincarnazione’ dei cristiani…
Gesù legge dunque nel cuore dello scriba la sua sincerità e decide di ‘salvarlo’, aiutandolo a capire.
Per salvarsi – gli spiega Gesù – l’uomo deve morire a se stesso, deve morire a se stesso per risorgere.
Lo scriba è ovviamente un uomo colto e pensa subito che Gesù alluda alla reincarnazione.
Questa era solo una teoria che traeva spunto dalle credenze di certe religioni e filosofie orientali, filosofie che – in un mondo pagano privo di veri valori spirituali come lo è anche quello di oggi – erano state diffuse dalla cultura ellenistica dominante in quell’epoca perché davano uno sbocco ‘comodo’ e rassicurante ai quesiti sulla vita e sulla morte.
Soluzioni rassicuranti perché non solo lo spirito dell’uomo non moriva, ma esso si reincarnava a suo piacimento in una serie di altri uomini, per secoli e secoli, per elevarsi sempre di più fino a raggiungere la ‘conoscenza assoluta’.
Ma la vita terrena è in realtà una sola, l’occasione per salvarsi è una sola e un uomo si perde o si salva per l’eternità a seconda di come – in quell’unica vita – ha saputo condursi nel bene come nel male.
La teoria della reincarnazione e della salvezza finale garantita a tutti - come predicato anche nelle teorie dello spiritismo moderno che hanno riverniciato ad uso dei cristiani le antiche filosofie orientali – è un atroce inganno perché induce l’uomo ad abbassare la guardia ed a moltiplicare le sue possibilità di perdersi.
Lo spirito è immortale – spiega dunque Gesù allo scriba - ma vive una sola vita, unito alla carne sulla terra e nello spirito in cielo, in maniera eterna, grazie al dono del battesimo ed allo Spirito Santo.
L’acqua del battesimo sarebbe però solo un simbolo se lo
Spirito non operasse con la sua potenza attraverso essa.
Chi è ‘lavato’ con quest’acqua deve poi ‘purificarsi’ con lo Spirito: vincere cioè la corruzione spirituale indotta nell’uomo dalle conseguenze del Peccato originale, purificarsi nella condotta di vita per tornare ad essere più spirito che carne, e questo perché il Regno di Dio – come aveva spiegato il Gesù valtortiano a Nicodemo nel Vangelo di Giovanni – ‘non sarà abitato che da esseri giunti all’età spirituale perfetta’1.
Il Regno dei Cieli, quello che noi chiamiamo Paradiso, è una cosa misteriosa.
Guardando nelle notti stellate le meraviglie dell’universo, con quei miliardi di galassie contenenti ciascuna a sua volta miliardi di stelle e pianeti, mi dico che – statisticamente parlando e facendo un calcolo probabilistico - certamente noi non possiamo essere il solo pianeta ‘intelligente’ e ‘abitato’.
Io sono un tipo pratico, poco portato agli afflati mistici, e non riesco a pensare al Paradiso come ad una realtà astratta di ‘beatitudine’: me lo immagino come stato di felicità ma anche di conoscenza concreta, conoscenza ad esempio dei segreti dell’Universo.
Lasciatemi sognare quello che mi piace.
Ma per entrare nel Regno dei Cieli, e quindi della Conoscenza, bisogna imparare ad amare perché solo i cittadini dell’amore, o che attraverso la sofferenza d’amore si sono purificati nel Purgatorio, possono ottenerne il passaporto di ingresso.
Gesù – parlando sempre di reincarnazione – precisa allo scriba che le anime non trasmigrano da corpo a corpo, di vita in vita, bensì dal Creatore che le crea all’embrione di uomo, e dall’uomo - che muore nella carne - al Creatore.
E una volta che l’anima si presenti al Creatore per il giudizio particolare, che è di vita o di morte eterna, l’anima resta là dove il Creatore la manda, in eterno.
Voi forse – nel leggere il dialogo – non avete riflettuto tanto su questa frase, ma lo scriba era una mente acuta, perché forse era un ‘teologo’…
E subito crede infatti di cogliere nelle parole di Gesù una contraddizione.
Se il giudizio particolare si conclude in una sentenza di vita o di morte in un luogo dove l’anima resta in eterno, che ne è – chiede lo scriba - del Purgatorio?
Gesù gli conferma allora l’esistenza del Purgatorio che egli però – nel suo pensiero – ‘assorbe’ nel concetto di Vita, per cui chi va nel Purgatorio è già ‘in Cielo’ perché il Purgatorio è già ‘salvezza’, cioè ‘Vita’.
E al momento del giudizio universale, quando il numero degli eletti sarà completo e le anime che erano ancora il quel luogo avranno terminato la loro purificazione per accedere al Paradiso, non vi sarà più Purgatorio ma resteranno solo Inferno e Paradiso.
Ricorderete che avevamo toccato questo argomento del Purgatorio nel secondo capitolo di questo libro, quando avevamo parlato del Limbo dei ‘giusti non cristiani’.
Vorrei ora tornarci sopra per chiarire quella che potrebbe sembrare una mia contraddizione se non una contraddizione addirittura del Gesù valtortiano.
Vi è chi dice che il Purgatorio sia stato una invenzione dei cristiani poiché la Bibbia non farebbe cenno ad una parola del genere.
In realtà è solo una questione terminologica perché gli autori degli scritti dell’Antico Testamento invece ne parlano ma – poiché prima della Redenzione lo Spirito Santo non era ancora giunto ad illuminare pienamente le loro menti, come inizierà a fare dopo la Pentecoste – ne avevano una cognizione ancora confusa.
Si sapeva che vi era un Limbo dei patriarchi, e comunque un luogo di espiazione nel quale soggiornavano i giusti defunti del popolo di Israele, per i quali i viventi potevano anche pregare.
Quello che noi cristiani, con terminologia nostra, chiamiamo ‘Purgatorio’ è quello che nella nozione degli antichi Ebrei veniva chiamato Sceol, o seno di Abramo oppure Ade, o Regno degli inferi, nel caso dei popoli pagani, insomma un luogo indefinito nel quale stavano i trapassati.
L’Opera della Valtorta parla spesso del Limbo, non solo quello dei patriarchi e dei giusti del popolo eletto svuotato alla discesa di Gesù agli inferi dopo la sua morte, ma anche di quello dei giusti non cristiani, quel famoso luogo non di sola espiazione ma anche di attesa, attesa che può essere anche gioia perché già pregustazione di gioia futura che si intravvede sicura.
Ora se in altri brani valtortiani Gesù parla di Limbo, come luogo di attesa o espiazione, come mai qui, con lo Scriba, Gesù precisa che le dimore sono tre: Purgatorio, Paradiso e Inferno, anziché quattro?
E come mai lo scriba della visione – che non è cristiano – si esprimeva usando già allora il termine di ‘Purgatorio’, sconosciuto alla sua lingua, e non piuttosto quello di ‘sceòl’ o di ‘seno di Abramo’?
E allora qui vi spiego un altro piccolo ‘segreto’ che vi aiuta a capire meglio l’opera valtortiana.
E’ solo un fatto di terminologia o, se volete, di traduzione.
Leggendo la Valtorta noi vediamo Gesù parlare agli apostoli ed agli ebrei in italiano, no?
Ma in realtà Gesù parlava secondo voi in italiano – come intende e trascrive la Valtorta - o piuttosto nell’ebraico, o aramaico che fosse, del suo tempo?
Egli parlava al popolo nella lingua del tempo, ovviamente.
Ma se la Valtorta nelle sue visioni avesse inteso parlare i personaggi dell’epoca nella loro lingua, avrebbe lei compreso il senso delle parole, o soprattutto, lo avremmo mai compreso noi?
Quale dunque è il ‘meccanismo’ della visione? Mistero.
Narrano gli Atti degli Apostoli che nel giorno di Pentecoste, mentre gli apostoli erano tutti riuniti, scese su di essi lo Spirito Santo ed essi – di fronte ad ebrei della diaspora convenuti da altre nazioni cominciarono a parlare in lingue estere secondo che lo Spirito dava ad essi per esprimersi.
Ma – domanda – erano gli apostoli che parlavano lingue diverse (e gli altri le comprendevano perché gli apostoli parlavano miracolosamente nella lingua degli altri) oppure gli apostoli continuavano a parlare nella propria lingua ebraica ma gli altri li intendevano nella loro lingua estera perché era lo Spirito Santo che ‘traduceva’ nella lingua di ciascuno degli altri il significato di quanto gli apostoli dicevano nella propria? Mistero.
Come è possibile, poi, rivedere in visione oggi avvenimenti del passato di duemila anni fa, come fa la Valtorta o come è successo a tanti altri santi e sante, o addirittura vedere avvenimenti del futuro come è successo a San Giovanni con la sua Apocalisse? Mistero.
Quale è la spiegazione ‘tecnica’ di apparizioni famose capitate a veggenti, come quelle ad esempio di Lourdes, La Salette, Fatima, Medjugorje, e tante altre ancora, con i corpi di Gesù o della Madonna che si materializzano o smaterializzano davanti ai veggenti, e parlano ogni volta nella lingua di chi li ascolta? Mistero.
Dio, poi, non parla solo a noi cristiani ma – poiché tutti gli uomini sono figli suoi – parla a uomini di tutte le razze, religioni e lingue. Ma nel parlare agli uomini invia loro delle ‘parole’, ad ognuno nella sua lingua, oppure invia loro impulsi telepatici, magari sotto forma di impulsi elettromagnetici che poi essi a livello inconscio decodificano - come se nella mente possedessero una antenna radio - e poi traducono ognuno secondo il proprio patrimonio mentale? Mistero.
L’uomo che vede i colori o ode dei suoni, non vede in realtà ‘colori’ né sente ‘suoni’ ma percepisce delle vibrazioni, delle frequenze, che potremmo definire di tipo elettromagnetico e che vengono trasformate dai nostri organi del senso in colori e suoni. Ma come può succedere? Mistero.
Il Gesù Valtortiano, cioè Dio, parlando con lo scriba e ad uso della veggente Maria Valtorta voleva dunque fare solo capire a lei ed a noi cristiani moderni il concetto di Purgatorio, e allora nella visione definisce quel luogo o stato con il termine di ‘Purgatorio’, anche se parlando allo scriba nella sua lingua dell’epoca lo avrà magari chiamato Scheol o Seno di Abramo. Capito l’arcano?
E’ tutto semplice – si fa per dire - ragionandosi un poco sopra.
E’ come se Gesù avesse dato alla mistica, quanto alla lingua parlata, una visione in versione già ‘tradotta’ nella nostra lingua.
Ma ve ne meravigliate, dopo tutto quello che avete imparato fin qui?
E allora guardatevi intorno: cielo, stelle, piante, animali, vita. Mistero.
Gesù parla dunque di Purgatorio non perché il Limbo non esista più, chè anzi in altri brani valtortiani è stato chiarito che esiste – ma perché in realtà, come il Purgatorio va ricompreso nel termine di ‘Vita’, così il termine di Limbo va a mio avviso ricompreso nella nozione più ampia di Purgatorio: come dire che il Purgatorio non è il limbo, ma il limbo possiamo considerarlo una sorta di purgatorio, una sua ‘dependence’.
Il Catechismo della Chiesa cattolica, alla voce Purgatorio, dice:
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Coloro che muoiono nella Grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati…
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Dunque, lo dice lo stesso Catechismo, il termine ‘Purgatorio’ è solo un modo ‘nostro’, un modo dei cristiani, di dare un nome a questo stato di purificazione.
Non bisogna soffermarsi sui termini che possono essere più o meno diversi, ma piuttosto sul concetto: e cioè che dopo la morte del corpo, esiste - per lo spirito che sopravvive - un luogo o uno stato per la propria purificazione: e in questo stato possono esistere stadi diversi di purificazione, anche senza arrivare magari ai famosi nove gironi di dantesca memoria.
Ricollegandoci dunque al secondo capitolo di questo libro – dal quale si poteva dedurre che le dimore dei trapassati potessero essere quattro (limbo, purgatorio, paradiso e inferno) di cui due sole persisteranno dopo il giudizio universale (inferno e paradiso), ora si potrebbe concludere, dopo il dialogo fra Gesù e lo Scriba, che le quattro dimore sono in realtà tre.
Le dimore – ripeto il concetto - non sarebbero quattro ma tre, perché il Limbo potrebbe essere assimilato e ricompreso – pur con qualche differenza qualitativa – nella nozione di Purgatorio.
Ma ora vorrei attirare la vostra attenzione su un concetto ancora che si deduce da questa visione.
Gesù dice che dai tre regni – inferno, purgatorio e paradiso – nessuno spirito tornerà più a reincarnarsi in un corpo umano, e ciò finché non ci sarà la resurrezione finale con le anime che torneranno a rivestirsi dei propri corpi per essere giudicate – nella buona come nella cattiva sorte – insieme ai quegli stessi corpi con in quali hanno in vita meritato o demeritato.
Questo giudizio finale universale – finito il mondo e quindi terminata anche la vita di tutti gli uomini - chiuderà per sempre il ciclo della ‘reincarnazione’ voluta da Dio nel creare le anime che vengono infuse nel corpo al momento del concepimento dell’embrione umano, cioè quando Dio crea lo spirito ‘immortale’ che viene racchiuso nel ‘mortale’.
Vi invito a riflettere su questi misteri della dottrina cristiana che sembrano oggi cose da fantascienza ma che già duemila anni fa venivano insegnati ai primi cristiani.
Gli uomini sono spiriti, spiriti di purezza inferiore a quella degli angeli ma che hanno avuto la sorte se non il privilegio – cosa di cui nemmeno gli angeli hanno beneficiato - di poter godere di una esperienza sensibile nel mondo della materia.
L’uomo avrebbe vissuto una vita di Paradiso in terra, se si fosse mantenuto integro.
Ma i primi due Progenitori – con il Peccato originale – hanno tradito Dio e la loro missione, hanno perso i doni che derivavano dalla loro unione con Dio e sono decaduti trasmettendo – attraverso la procreazione - i segni del proprio decadimento spirituale e fisico anche ai loro discendenti2.
L’uomo decaduto inizia la sua vita sulla terra, per certi versi piacevole ma non proprio esente da malattie e dolori. Egli sbaglia, sbagliando si procura dolore e soffre, e con la sofferenza espia per i suoi ‘peccati’, e se non espia abbastanza – o non ha imparato in vita ad amare Dio e il prossimo come Dio vorrebbe – allora, sempre che non finisca all’inferno, termina l’espiazione in Purgatorio. Perché? Perché per entrare in Paradiso bisogna raggiungere la maturità spirituale perfetta.
Ma ritornando allo scriba, questi vorrebbe ancora capire quale è la differenza fra l’essere eterni e l’essere immortali.
Gesù glielo spiega: l’eternità è quella di Dio che non ha avuto inizio e non avrà fine, mentre l’immortalità è quella dello spirito dell’uomo che ha avuto inizio, perché è stato creato, ma non avrà fine.
Lo Scriba - che era una miniera di domande sulle cose essenziali quanto Gesù lo era di risposte - chiede allora a quel Gesù-Uomo-Dio, che egli si vedeva davanti in carne ed ossa, quale sarebbe stata la sua sorte futura.
A noi esseri umani non è affatto chiara la realtà di Colui che chiamiamo ‘Dio’.
Se in realtà Dio è Vita, e se la Vita si è incarnata nell’Uomo, che diviene così Uomo-Dio, quale sarà – voleva intendere lo scriba - la sorte futura dell’uomo-Gesù?
Gesù gli risponde: ‘Io vivrò perché carne sono, e allo Spirito divino ho unito l’anima del Cristo in carne d’uomo’.
In queste poche parole c’è tutto il mistero della persona dell’Uomo-Dio Gesù Cristo.
Gesù Cristo non è solo un uomo di duemila anni fa ma – fuori del tempo come ormai Egli è – è un uomo anche di adesso.
In Lui coesistono la natura divina e quella umana, perché in lui vi è il Dio che si è incarnato unendosi all’anima dell’uomo che andava formandosi nel seno di Maria dal momento del suo concepimento grazie ad un atto di pensiero e di potenza divina.
Anche Gesù vivrà, come gli altri uomini, ma vivrà non con il corpo materiale umano ma con il suo corpo glorificato di Risorto come apparirà agli apostoli dopo la resurrezione, materializzandosi e smaterializzandosi nel cenacolo, apparendo a centinaia di persone per decine di giorni prima di ascendere con il proprio corpo glorificato al Cielo.
L’Uomo-Gesù – dopo la gloria della sua morte in Croce e della Redenzione – ha avuto da subito, quale Nuovo Adamo vittorioso sul Peccato, capostipite della Umanità rinnovata, il suo corpo glorificato nel quale è Dio-Vita.
Egli lo ha avuto da subito, senza aspettare il giudizio universale per farci anche capire che un analogo futuro destino di gloria attende tutti noi, uomini mortali: alla fine del mondo, alla resurrezione dei corpi, avremo corpi glorificati, non più dipendenti dalle necessità della materia e del senso.
Ed anche la Madonna, secondo la Dottrina cristiana, è stata pochi anni dopo assunta in Cielo in anima e corpo, un corpo glorificato.
Queste considerazioni – sia pur presentate molto concretamente alla mia maniera - riflettono quello che la Rivelazione e la Dottrina ci insegnano essere la prospettiva, alla fine della storia, di tutti gli esseri umani che si saranno salvati.
Ecco perché è tutto quasi fantascientifico.
E’ una prospettiva che stordisce ma che non dovrebbe meravigliare troppo neanche il più incallito dei razionalisti ove egli solo soffermi qualche attimo lo sguardo sulle immensità dell’Universo, cioè del Macrocosmo (stelle, pianeti e galassie), o su quelle del Microcosmo (materia, molecole, atomi, protoni, neutroni, elettroni, quarks, etc.) o infine sulle meraviglie della Natura e della Vita che ci circonda.
Tutte meraviglie che non sarebbero meno stordenti se solo non le avessimo ogni momento sotto gli occhi al punto di non farci neanche più caso.
Ecco perché nell’immaginarci Gesù in quello che noi chiamiamo ‘Cielo’, ma che in realtà non sappiamo se sia una sorta di altra ‘dimensione’ o cosa altro ancora, non dobbiamo necessariamente immaginarcelo astrattamente come ‘Verbo’ o ‘Spirito purissimo’, o come ‘Vita’, ma piuttosto come un Gesù in ‘carne ed ossa’ ma con un corpo ‘glorificato’, cioè spiritualizzato e dotato di possibilità straordinarie.
E’ l’estremo regalo agli uomini del Dio della Creazione.
Un Dio che è astrattamente ‘Vita’ ma che – buon Padre - si dona a loro attraverso il Figlio-Verbo sotto le sembianze di Uomo, uomo certo dal corpo glorificato ma anche Dio, per renderci antropologicamente e antropomorficamente più facile l’amarlo come Uomo-Dio.
1 G.L.: “Il Vangelo del ‘grande’ e del ‘piccolo’ Giovanni” – Vol. I, Cap. 4 - Ed. Segno, 2000
2 G.L.: “I Vangeli di Matteo, Marco, Luca e del ‘piccolo’ Giovanni” – Cap. 5: L’Evoluzione discendente e…l’uomo delinquente di Cesare Lombroso’ - Ed. Segno,2002