(D. Ruotolo: 'La Sacra Scrittura - Giobbe' -Capp. VII, VIII)
- Apostolato Stampa, Napoli -

20. La vita è tutta un combattimento

20.1 – Giobbe: ‘Signore, cancella i miei peccati, finchè sei in tempo…’

Sono qui che sto riflettendo ancora su questa cosiddetta ascesi di cui mi son fatto l'idea che ora vi dico.
Parlo ovviamente della ‘mia’…, e non delle ascesi 'serie' che fanno i 'professionisti', tipo religiosi, sacerdoti, monaci, eremiti e via salendo.
Quando eravate piccoli, non vi hanno mai detto: 'fai un fioretto alla Madonna: non mangiare quella caramella’?
Beh… - mi dico – quello doveva essere già un principio di ascesi, anzi per un bambino era una grossa rinuncia, magari in quel momento particolare in cui lui, su ‘quella’ caramella, ci aveva fatto un bel pensierino sopra, come il mio cane lupo Wolf quando si accovaccia davanti alla rete del pollaio, guarda attento i polli che razzolano tranquilli e, ogni tanto, si passa una lisciatina sui baffi.
Potrebbe sembrare una cosa infantile, l' imporsi delle regole di comportamento, ma in fin dei conti noi per tutta la vita 'dobbiamo' subire orari regolari e fare delle cose che non ci piace fare o che è necessario fare.
La differenza - nella mia ascesi - è 'in meglio' perchè nel caso del ‘mio’ programma io lo faccio volontariamente non essendovi costretto.
E' lì il bello...
E perchè l' ascesi è importante? Perchè significa rinunciare ad una parte di libertà, ed è quindi sacrificio, se non altro quello imposto dal rispetto degli orari e dalle piccole rinunce, come ad esempio bere solo mezzo caffè  quando proprio non vedi l’ ora di fartene uno bello intero, e poi le rinunce un poco più grosse: tipo saltare un pranzo, quando non anche colazione e pranzo, e allora ti aggiri per la casa come un' anima in pena guardando l' orologio ogni dieci minuti nelle ultime due ore, oppure alzarti presto, il che non sarebbe un sacrificio se lo dovessi fare normalmente per lavoro ma lo diventa se lo fai perché sei tu che te lo imponi quando invece avresti tutto il tempo che vuoi per dormire.
Con le piccole rinunce in realtà si ottiene un duplice risultato: da un lato si dà al Signore una piccola dimostrazione di affetto non 'teorica' ma condita appunto da un piccolo sacrificio, e dall' altro si esercita la 'volontà'.
La 'volontà' si esercita infatti come un muscolo, con l'esercizio.
Se un muscolo non lo si esercita si atrofizza, no? Se poi gli imponete di colpo un grosso sforzo esso cede, si 'strappa', come dicono gli atleti.
Ma se lo esercitate con tanti piccoli sforzi progressivi – e lo tenete così in allenamento - allora si rafforza e si sviluppa e vi consente di diventare sempre più 'robusti'.
Tutte queste piccole regole, tutti questi minuscoli sacrifici (ma provate a imporvi di rinunciare ad un caffè o anche ad una sola sigaretta non quando non ne avete voglia ma quando invece ve ne viene proprio voglia..., oppure ad una bella bibita nel momento in cui vi è venuta sete...), esercitano dunque anche la volontà che, come i muscoli, acquista forza.
E a quale fine? Al fine di resistere meglio alle 'tentazioni'!
Una volontà esercitata sa infatti resistere meglio alle tentazioni.
‘Tentazioni? - mi direte - e quali?’
Di tutti i generi, dalla 'gola' ...alle donne! O no?!
Qui bisogna mettersi d' accordo.
O leggete tanto per leggere qualcosa oppure leggete perchè vi dite che in tutta questa storia di cose spirituali come Dio, l' anima, l’ aldilà, gli angeli, i demoni, etc., qualche cosa di vero ci deve essere.
E allora se c' è qualcosa di vero, acquista anche un senso - se niente niente uno può - fare un pochino di ascesi, che poi, detto molto molto semplicemente, non è altro che l' autoimposizione - nel caso di una ascesi laicale, che cioè può fare chiunque di noi - di una certa continenza materiale e spirituale: darsi cioè un senso della misura.
Niente di trascendentale insomma, e fa veramente bene anche alla ‘linea’.
I veri asceti non erano ‘asceti’ perchè se lo dicevano loro, erano gli altri che li chiamavano così, ma loro in realtà rinunciavano solo a qualcosa per offrire dei sacrifici a chi, di Sacrificio, ne aveva fatto uno ben più grande.
Un po' di preghiera, a seguire, fa poi il resto.

E ora torniamo a Giobbe.
Egli, l'ultima volta, aveva rimproverato gli amici di parlare solo per recriminare ma poi li aveva invitati ad una pacata e serena discussione per vedere invece se le sue ragioni di dolore e di lamento non fossero più che giustificate.
Egli rivolge a questo punto lo sguardo al cielo e, con un rimprovero accorato, che più che rimprovero è grido di dolore e di amore, ricorda al Signore che la vita di un uomo su questa terra è tutta una sofferenza, o meglio un combattimento continuo contro tutto e contro tutti per cui l' uomo - esausto per questa serie continua di prove - finisce per desiderare la morte non come un atto orgoglioso di rifiuto della vita ma come il momento della liberazione.
E Giobbe infatti, ridotto in miseria e malato, persino repellente alla vista, spera tutto il giorno nel riposo notturno che però non gli darà la pace per cui non vedrà l' ora di alzarsi per dover poi affrontare un' altra giornata di tormento con le stesse prospettive del giorno prima.
Egli piange su questa vita, che passa come un lampo, e pensa alla morte che lo toglierà alla vista degli altri uomini, che gli impedirà di veder più la sua casa, i suoi cari, i suoi amici per cui, se anche egli ritornasse dopo nel luogo in cui visse, nessuno lo riconoscerebbe più. 
'Perciò - dice Giobbe al Signore - lasciami parlare a ruota libera perchè vorrei dirti dell' angoscia in cui si dibatte il mio spirito, dell' amarezza che travaglia l' anima mia.
Perchè, o Signore, mi hai condannato a questa vita dalla quale non posso uscire?
Se anche cercassi rifugio nel sonno so già che poi mi atterriresti con incubi o visioni.
E' per questo che dunque invoco la morte, la invoco come atto di misericordia e non come rifiuto della vita.
Tanto, Signore, cosa vuoi che valga la mia vita, ridotto come sono? Che te ne fai di un uomo come me? E perchè mai te ne occupi ancora?
Tu, o Signore, dici di voler seguire l' uomo con amore ma poi appena l' uomo nasce lo metti di fronte ad una catena interminabile di prove.
Perchè non mi perdoni e non mi dai almeno un attimo di respiro? Se anche ho peccato, dimmi cosa posso fare per riscattarmi.
Mi trovo ora ad aver contro sia te, o Signore, che me stesso che sono diventato per me un peso insopportabile.
Tu che tutto puoi, perchè non mi assolvi e cancelli i miei peccati finchè sei in tempo?
Finchè sei in tempo, perché sento che finirò per morire qui nella polvere e se aspetterai ancora fino a domani sarà troppo tardi, perchè quando tu mi cercherai io non ci sarò più'.

A Giobbe questa volta risponde Baldad che - dimenticatosi evidentemente l' invito a ragionare con serenità e interpretando il nuovo lamento di Giobbe verso il Signore come una sorta di ulteriore imprecazione iraconda, lo 'investe' con tono duro invitandolo a pentirsi veramente perchè se Dio ha già giustamente punito - abbandonandoli al loro destino - i suoi dieci figli vittime della loro stessa iniquità, egli può fare ancora in tempo a salvarsi se si riavvicinerà con la preghiera a Dio che a quel punto lo ripagherà ampiamente dei beni perduti.
E questo perchè - continua Baldad - come le piante di papiro e di giunco non possono vivere senza acqua ma inaridiscono rapidamente, così è anche la sorte che toccherà a chiunque dimentichi  o ami con ipocrisia Dio, che infatti poi lo rinnegherà.

 

20.2 Bella vita, anche se è vita di combattimento

Me ne sto qui a rifletterci un po’ distrattamente sopra.

'Però, questi 'antichi...', mi dico, duemila e settecento anni fa o giù di lì... non è che ragionassero male, anzi mi viene il dubbio che in tanti casi ragionassero meglio di noi'.
Mi dico anche che se uno fa il raffronto fra noi e loro in termini di 'tecnologia', la differenza fra noi e loro è enorme, ma se vai a vedere invece non lo sviluppo 'scientifico' (che anche da noi è però 'fresco' solo di un duecento anni) ma la capacità di 'pensare', di ‘congetturare’, di 'speculare' filosoficamente scopri che - a parte le modalità di espressione letterarie che ce li fanno sentire ovviamente lontani quando li 'leggi' nella loro linguaggio, cioè nel loro modo originario di esprimersi così diverso dal nostro - scopri allora che essi 'ragionano' proprio perfettamente.
E il discorso di Giobbe sulla vita - mi dico - lo potrebbe fare pari pari l' uomo del 2000.
Il suo ragionamento con Dio non è forse un discorso molto realistico e 'giusto'?
E quanti sono i 'Giobbe' che si trovano oggi nelle stesse condizioni, se non peggiori, nascosti alla nostra vista dai muri delle case e degli ospedali e nelle case di riposo?
Noi tendiamo a fuggire il 'male', e persino il ricordo del 'male' che il nostro 'subconscio' rimuove dalla memoria.
Quando ci guardiamo intorno e vediamo la sofferenza distogliamo lo sguardo perchè ci dà fastidio.
Se qualcuno ci racconta di qualche altra persona che sta male, per un po' - per educazione - stiamo a sentire, ma poi - mascherando il disagio, che è poi 'fastidio' - cerchiamo di indurre il nostro interlocutore a cambiare argomento.
Non parliamone, poi, se uno ne accenna quando siamo a tavola, come fa mia figlia che lavora in un ospedale
La sofferenza ci dà fastidio e ci fa paura, ma è una realtà.
Noi - fortunatamente, per ora almeno, e incrociando le dita - stiamo bene.
Ma quanti, invece, giacciono da anni in un letto, ed hanno bisogno di una assistenza continua e di essere curati, lavati, cambiati, sbarbati?
Quanti sono quelli che - anziani - soffrono di incontinenza e,  magari anche paralizzati, devono subire l' umiliazione di vedersi accudire – se e quando hanno la fortuna di aver qualcuno che lo faccia - come dei bambini?
Quanti soffrono di mali che procurano dolori e aspettano la notte per dimenticare per lo meno la loro situazione psicologica nell' oblio del sonno - come vorrebbe fare Giobbe - ma poi non riescono a dormire ma anzi - nel buio della notte - vengono attaccati dai 'fantasmi' della loro situazione, fantasmi che – in dormiveglia -  assumono forme da incubo e ti fanno sospirare che il mattino arrivi presto perchè così ti distrai e ci pensi meno?
Quanti, vedendo di non aver più prospettive, sentendosi di peso a se stessi e agli altri, vorrebbero farla finita, ma non ne hanno il coraggio, e allora invocano - come Giobbe -  che Dio se li porti via, se un Dio mai esiste, poichè se non esiste è la disperazione totale perchè  neanche questa loro sofferenza ha allora più un senso?

Ecco…, il senso della sofferenza!

La vita è proprio un combattimento, un combattimento con tante sfumature di 'sofferenza', da quelle che appena appena si vedono: chiamiamole 'fastidi', a quelle che si rendono ben presenti giornalmente: chiamiamole 'doveri', a quelle che sono pesanti e incombenti: chiamiamiole 'dolori'.
Spesso, poi, ci attacchiamo ai beni che abbiamo.
Magari non sono dei 'gran beni', ma per noi sono importanti.
Una bella casa, ad esempio, in campagna, montagna o al mare: moglie, figli che vi crescono, feste con amici, canti, risate, allegria.
Noi - che in quella casa abbiamo vissuto e che se solo potessimo vorremmo anche portarci nella tomba o legarla indissolubilmente al nostro nome, ed è per questo che la vogliamo lasciare in eredità - ci vorremmo morire anche dentro, nella nostra casa.
Poi però i figli - ai quali di casa ne piace un' altra, magari più confacente alle loro necessità - la casa la vendono, la vendono, la 'nostra' casa, a degli estranei.
E quando dall' aldilà - da sopra la nuvoletta - guardiamo quella nostra bella casa sulla terra, quella bella villa nel verde con quel bel parco, diciamo che è proprio bella la nostra casa.
E quando con il cannocchiale la guardiamo più da vicino  scopriamo che è deserta, che ci abitano due vecchietti, che il parco è in disordine, trasandato, che i miei bei cani non son più lì a scorazzare allegri avanti e indietro.
Oppure sentiamo che ci sono anche lì tante feste e grida e canti e risate, come quelle di una volta, e allora mettiamo meglio a fuoco il binocolo e scrutiamo quei volti, ma non sono quelli delle nostre mogli, dei nostri figli, dei nostri nipoti, dei nostri amici.
Sono i volti di 'altri', di estranei che sono i nuovi 'padroni', e di noi -  loro -  non sanno assolutamente niente, non sanno quante volte abbiamo calpestato quel terreno dove ora passeggiano loro, non sanno quante volte ci siamo appoggiati a quell' albero, quante volte abbiamo fatto la pizza in quel forno, quanta allegria risuonava in quei prati, durante quelle festicciole estive.
Credevamo di 'possedere' qualcosa e – da sopra la nuvoletta - ci accorgiamo invece che stavamo solo 'usando' un qualcosa che altri avevano a loro volta usato prima di noi e altri ancora avrebbero usato dopo: ognuno di noi 'credendo' di possedere qualcosa, mentre eravamo solo 'in affitto'.

E se noi scendessimo dalla nuvoletta con la nostra scala di seta e ci presentassimo al cancello di ingresso essi – i nuovi ‘affittuari’ - ci guarderebbero con sospetto, come estranei, senza riconoscerci - proprio come diceva Giobbe - perchè noi, una volta morti, non siamo più nessuno, nessuno.
E non ci ricordano più nemmeno i nostri figli…
D' accordo, è colpa del 'subconscio' che rimuove noi come noi abbiamo a nostra volta 'rimosso' gli altri, salvo il giorno dei morti: quel giorno una visitina…, perchè è anche doveroso, e poi via... rimuovendo anche quel ricordo, perchè ci addolora e la vita continua.
Ecco, dopo questa vita - condotta nel combattimento - scopriamo dalla nuvoletta che la vera morte non è stata quella fisica ma quella della dimenticanza.
Noi siamo 'passati', anzi 'trapassati', e nessuno, neanche quelli che ci hanno amato, che ci hanno amato veramente, si ricorda più di noi.
Quale è allora il senso di questa vita? Quale è il senso di questo combattimento?
Possibile, se un Dio esiste (e certo mi dico che esiste perchè nella Creazione ne vedo il riflesso, lo vedo nella natura, nei mari, nei monti, in tutte le forme di vita, nel sole, in quelle migliaia di miliardi di stelle di ognuna di quei miliardi di galassie, tutte in 'fuga' - dal momento del Big Bang - fino agli estremi limiti dell' universo, ma avrà poi un 'limite' l' universo?), possibile che questa nostra vita dove tutta la natura che ci circonda sembra avere un preciso senso 'scientifico', possibile che proprio la nostra vita, la vita di noi esseri pensanti e spirituali, che proprio 'pensando' e 'vedendo' la creazione diamo un senso alla 'creazione' stessa che altrimenti sarebbe come non esistesse, possibile che la nostra vita  non abbia un senso?
Certo che c'è, il senso.
Non ne abbiamo la 'matematica certezza', ma l' unico senso plausibile a questa vita di combattimento che altrimenti non avrebbe senso è proprio quello che ci ha rivelato Dio.
La vita è un combattimento perchè l' uomo, creato perfetto, ha peccato ed è 'caduto'.
Il Peccato originale? Adamo ed Eva? Fantascientifico?
Non più fantascientico - anzi molto meno - della Natura e dell' Universo che ci circonda.
L' uomo, i primi due, erano creature già fatte per il Cielo dopo una vita felice sulla terra, una vita resa felice da una natura umana perfetta, perfetta nel fisico come nello spirito.
Ma con la 'caduta' è nato il dolore, e con il dolore il combattimento. E come chi ruzzola giù da un monte poi deve risalire la china, così la vita è il sentiero in salita sul quale ci inerpichiamo, sapendo che solo in cima, cioè al culmine della fatica, la nostra fatica sarà finalmente finita ed avremo da lì finalmente la visione del mondo bellissimo che ci circonda ma che nella fatica della salita non abbiamo potuto apprezzare: il mondo dello Spirito al cui centro è Dio.

Ecco, ad un certo punto, mi dico però che è ben triste penare tanto e poi morire lasciando questa vita, che anche se triste è tanto bella, per poi doversi 'accontentare' di un Dio che non conosciamo neppure, se non nel 'riflesso'.
Ma non è bestemmia, è 'umanità'.
E, oltre che umanità nostra, è 'bontà'di Dio, che -  nonostante tutto, nonostante noi stessi - ci ha dato i sollievi e gli aiuti per farci ancora sembrare bella questa vita che è solo una vita di... combattimento.